Metodi di coltivazione
Coltivare orti per coltivare sogni
Se siete arrivati fin qui, a leggere l’ultimo di questi miei 7 articoli dedicati all’orto sinergico, è chiaro che dentro di voi è germogliato il desiderio non solo di coltivare un orto, ma di seminare una piccola rivoluzione ecologica. A conclusione di questo percorso, sento il bisogno di condividere con voi un viaggio in un luogo che più degli altri mi ha insegnato qualcosa sul valore di un’esperienza di coltivazione naturale al giorno d’oggi e, soprattutto, in un contesto urbano, mostrandomi l’anima di quei giardini che sono, prima di ogni cosa, spazi per celebrare la terra e tutte le sue creature.
Cominciavo a sentire il sole scottarmi la fronte mentre percorrevo quegli stradoni asfaltati nel quartiere di Font-Vert, un agglomerato di grigiore e cemento nella periferia nord di Marsiglia. Ad acuire il senso di desolazione c’erano le brutte e altissime case popolari, quegli orribili palazzoni noti come “HLM” (habitations à loyer modéré). E poi l’inquietante condizione di isolamento geografico del quartiere, garantita da un lato dal passaggio dei binari dell’alta velocità e dall’altro dal passaggio dell’autostrada. Chiusa nel mezzo, c’è la vasta comunità araba francese che popola il quartiere che, ad essere franchi, somiglia più ad un ghetto, fornito anche di qualche minuscolo rivenditore di alimentari e di una scuola, che limitano ancora di più le necessità e la volontà della popolazione di uscire e incontrare gli altri marsigliesi che vivono in centro.
Ero nel 13° arrondissement, che insieme al 14° conta 150mila abitanti e rappresenta una delle zone più povere dell’intero paese. L’INSEE (l’Istat francese) racconta che il 39% delle famiglie è sotto la soglia di povertà, con un tasso di disoccupazione tra il 40 e il 60%, il che come è facile prevedere porta con sé tutti i possibili travagli sociali che spesso si nutrono di povertà e disperazione: alti tassi di criminalità, una media di venti omicidi annui, un florido spaccio e striscianti frange estremiste che provano a fare proseliti tra i più giovani.
A guidarmi a Font-Vert c’era il mio amico Ahmed, con cui riuscivo a malapena a comunicare a gesti grazie al mio pessimo francese e al suo per me del tutto sconosciuto accento. Lo avevo conosciuto pochi giorni prima proprio a Marsiglia, durante un progetto di scambio europeo dedicato al potere dell’agricoltura urbana. Lui, sempre sorridente e un po’ sornione, aveva annunciato con determinazione che aveva qualcosa da mostrare in proposito proprio nel posto in cui viveva, a Font-Vert, poco lontano dall’incantevole centro storico marsigliese in cui ci trovavamo.
Ed eccomi così a camminare in quello che mi sentivo di definire un postaccio, nelle ore più calde della giornata e nell’unico pomeriggio libero che avevo a Marsiglia, che avrei potuto usare per visitare le Calanques e fare un bel bagno. Seguendo Ahmed ci siamo imbattuti in un gruppo di ragazzini, poco più che bambini. Ahmed si è voltato e mi ha chiesto di non guardarli. Non capivo se stesse scherzando, ma il tono acceso con cui il gruppetto si è rivolto al mio amico mi ha confermato che si faceva sul serio. Avranno avuto al massimo 12 anni e dopo una breve discussione, durante la quale Ahmed era sempre sorridente e tranquillo, mi ha detto che era tutto ok, ma non potevamo scattare fotografie in quella zona. Iniziavo ad essere perplessa: che cavolo ci facevo li?
Mentre me lo domandavo, una gallina mi attraversò la strada… si, una gallina! Nel bel mezzo di uno stradone asfaltato, tra le auto parcheggiate e le case popolari! Mi accorsi che in realtà la gallina era in ottima compagnia, circondata da un gran numero di suoi simili.
“Ma che ci fanno qui???” chiesi ad Ahmed un po’ sorpresa.
“Le abbiamo messe noi. Per le uova.” mi rispose come se la mia domanda fosse del tutto ingiustificata.
Fu dopo pochi passi che scorsi il primo di una decina di ulivi che, alti non più di due metri, erano impegnati a farsi spazio nell’asfalto e sfondarlo con le radici. Ahmed me li indicò soddisfatto e sorridente, senza aggiungere parola. Anche quella opera “loro”, dove con loro si intende l’associazione che Ahmed presiede e che ha sede proprio a Font-Vert: offrono servizi e assistenza alle famiglie, lavorano sul senso di comunità e solidarietà, gestiscono uno spazio per intrattenere i bambini con attività educative e cercano di tenere i ragazzini lontani dalle compagnie pericolose. Insomma, sono degli eroi!
Svoltato l’angolo raggiungemmo un nuovo stradone asfaltato tra due alti palazzi, ma qui c’era un’aiuola lunga meno di tre metri circondata da un’alta rete.
“Questo è il roseto di mio padre” mi comunicò Ahmed con orgoglio.
Avvicinandomi alla rete, vidi un numero imprecisato di rose dai colori disparati e di una bellezza confortante in mezzo a tutto quel grigio: quelle rose messe lì erano così fuori contesto, eppure allo stesso tempo così opportune in un luogo che era stato progettato senza contemplare natura, colore e bellezza.
Un uomo anziano si affacciò a un balcone, sarà stato al quarto piano, ma iniziò a comunicare senza l’ausilio del citofono, semplicemente urlando. E anche se non capivo cosa dicesse, per un momento questo gesto mi fece sentire a casa, a Napoli!
“E’ mio padre, ha detto che devo fare una cosa”, mi comunicò Ahmed.
L’uomo al balcone sorrideva e Ahmed entrò nel roseto in miniatura attraverso un piccolo cancello di fortuna. E ne uscì con una rosa.
“Questa è per te, da parte di mio padre”.
L’uomo dal balcone continuava a sorridermi e dire qualcosa mentre io mettevo in campo tutta la mia arte del gesticolare per ringraziarlo ancora e ancora. Continuando a seguire Ahmed mi allontanai dal roseto con quel bellissimo fiore tra le mani, e mi sentì per un momento colpevole a portare qualcosa di così bello fuori da quel luogo che ne aveva tanto bisogno.
Raggiungemmo una ruspa sul ciglio di un vialone asfaltato uguale agli altri e Ahmet comunicò che sarebbe stato qui che sarebbero nati i nuovi orti urbani. Strabuzzai gli occhi: “Ma qui dove?”
Mi guardavo intorno e sembrava di stare nel mezzo di una carreggiata dell’autostrada, ma senza auto.
“Qui! Qui” Insisteva Ahmed aiutandosi con gesti e sorrisi, pensando avessi difficoltà a capirlo per i nostri problemi di incompatibilità linguistica. Non sapevo cosa dire.
Ahmed non era certo uno stupido, volevo fidarmi, ma non riuscivo davvero ad avere sufficiente fiducia e prospettiva. Naturalmente apprezzavo l’idea: creare spazi verdi in mezzo a quel grigiore, far uscire la gente di casa e farla incontrare negli orti, dare loro l’opportunità di coltivare del cibo e prendere contatto con la terra, moltiplicare piccole oasi di bellezza in quel paesaggio desolante. Ma non riuscivo a capire come potessero fare, da dove partire.
Ahmed deve aver colto la mia perplessità: “Ora ti faccio vedere” ha detto mentre telefonava al suo amico Max.
Max ci ha raggiunto pochi minuti dopo: è un ex boxer, un ragazzone massiccio e incredibilmente affabile e sorridente, di una delicatezza incongruente con la sua fisicità! Lui e Ahmed si sono salutati affettuosamente, ci siamo presentati e poi i due amici mi hanno guidato alla fine del vialone, al limite del quartiere proprio dove confina con i binari dell’alta velocità.
E lì, sulla recinzione, mi hanno fatto strada attraverso una porticina… Era così surreale, dove mai può portare una porta al limite del quartiere nel bel mezzo del niente?!
Quella porta è a tutt’oggi una delle soglie più incredibili che abbia mai varcato! E mi ha dato accesso ad uno degli orti urbani più belli che abbia mai visto. Sfruttando il pendio verso i binari e la fisicità di Max, una piccola area è stata terrazzata per far spazio ad un orto.
Qui hanno cominciato a coltivare piante di ogni tipo, finché non hanno avuto l’idea di farsi inviare da amici e parenti dei semi dall’Algeria, paese d’origine di Max e di Ahmed, per riassaporare sapori dimenticati e del tutto sconosciuti ai loro figli, nati e cresciuti in Francia.
Tra le piantine, ben curate e legate, pupazzetti e bandierine rallegravano se possibile ancora di più quella piccola incantevole oasi. Sul terrazzamento più alto, con legno e canne era stato costruito un piccolo ricovero dal sole. Al centro di quel ricovero, una targa con un disegno in rilievo: Don Chisciotte e Sancio Panza, davanti ad un mulino a vento…
Qui, abbiamo improvvisato una sessione di scambio di semi, la più bella che io ricordi, in cui ho donato pomodori vesuviani e ricevuto in dono peperoncini del deserto.
Quel piccolo orto, affacciato sui treni che sfrecciavano a tutta velocità, mi ha insegnato molto sul senso del coltivare in città e di farlo in qualunque condizione, anche le meno favorevoli e consigliabili.
La desolazione che circondava quella piccola oasi che ha accolto uno dei pomeriggi più memorabili della mia vita, la faceva brillare ancora più forte. E in un luogo tanto estremo, ho chiaramente percepito la necessità urgente di fondare quante più possibili oasi di aggregazione delle persone, di cura della terra e cura della comunità.
E se ci sono molti modi e luoghi per prendersi cura degli altri, a mio avviso ne esiste solo uno in cui sia possibile prendersi cura degli altri e della terra nello stesso tempo, riconoscendo di appartenere a un più ampio contesto che potremmo chiamare Natura: l’orto.
Non serve vivere a Font Vert per avvertire questa necessità e anche se rispetto a quel luogo so di vivere in un contesto privilegiato, a ricordare a me stessa che quella necessità vive ogni giorno e in ogni luogo c’è la rosa del padre di Ahmed, che custodisco ancora gelosamente nel mio comodino.